
L’architettura oggi ci salta addosso. Come una tigre, come un animale selvaggio che non sappiamo più ammaestrare, che non sappiamo più mettere dentro una gabbia. E allora bisogna cavalcare la tigre. L’architettura nasce da incontri a volte casuali con clienti, dialoghi inaspettati con persone e trova le risposte necessarie nel lavoro di uno studio.
È il miracolo di un disegno fatto da tante mani, che diventa una costruzione. Allora ognuno può riconoscere il pezzo di lavoro fatto e ci si commuove, perché oggi quel tratto di linea è diventato una casa, un Hotel, un ufficio, eccetera. Allora raccontare le nostre architetture è un modo per fare una autobiografia di tante persone, riunite dall’architettura sotto lo stesso tetto. Il racconto non guarda solo al passato, ma anche e soprattutto al futuro, perché fare architettura è il destino che ognuno ha scelto. O forse ognuno è stato scelto dall’architettura e trascinato nel gioco senza quasi rendersene conto. Poi si guarda indietro e si capisce che c’è stato un cambiamento nel vivere anche grazie a noi ed al nostro ruolo di interpreti di un cambiamento più ampio e sempre più rapido.

Did.1 Fare architettura è il destino che ognuno ha scelto
Una volta era più facile: c’erano le tendenze, c’erano le conventicole, i gruppi, le avanguardie. Si progettava alla maniera del Maestro di turno. Poi c’è stato il momento delle archistar, dei profeti, quelli che sono sempre presenti, che hanno sempre una parola da dire, un’immagine da proporre (o da imporre) in modo ossessivo sui social media. Tanto che adesso la potenza di fuoco si misura sulla capacità di “stare sui media”, di raccontarsi, partecipare ai dibattiti, agli incontri, o meglio, ai “talk”. È la logica banale della pubblicità, per cui la ripetizione del messaggio genera la convinzione che il mio detersivo lava più bianco. Così la mia archistar è più brava della tua. La ripetizione del messaggio è l’ossessione del brand, si vende l’architetto come un qualunque paio di jeans.
Quello che è successo a noi di WiP è stato invece di essere stati travolti, abbacinati, colpiti da una serie di IPEROGGETTI, di grandi temi da risolvere. Quindi non tanto elaborare discorsi da fare per diventare famosi, quanto realtà che devono essere ascoltate, vissute, affrontate. E l’architettura è uno strumento per fare questo e si cresce così in modo organico per la grandezza delle sfide che si affrontano. Ci siamo sempre concepiti come un servizio al cliente, ma adesso c’è stato un salto di qualità, verso l’architettura come un bene stabile, un valore da perseguire per tutti, dove la funzione e la forma stanno dentro un oggetto nuovo. Non basta più fare il nostro dovere da bravi professionisti; occorre inseguire il destino di essere architetti costi quel che costi. Stiamo parlando di qualche cosa che non è semplicemente la creazione di una bella immagine, il solito rendering fantascientifico (che peraltro ci riesce bene). Noi stiamo parlando di architettura come qualcosa che cambia la vita. Niente di meno. Certo, è una pretesa un po’ alta, forse arrogante, ma per meno di questo non vale la pena di fare tanta fatica. Cioè ci stiamo rendendo conto, da un po’ di tempo a questa parte, che non ci basta più fare un bel progetto, che rispetti le normative, che soddisfi il cliente…intendiamoci, tutte cose ovvie e importanti. Ma adesso l’asticella si sta alzando vertiginosamente, perché le sfide sono più alte. E’ un po’ come il volo di Icaro, vale la pena di mettersi alla prova anche correndo un rischio.
Gli Iperoggetti sono quelle cose che ci investono in modo talmente forte, da farci capire che la realtà del mondo non è sotto il nostro controllo totale. Non è con un bel disegno “green” o evocando qualche scenario idilliaco di parchi e giardini, che si può risolvere il problema del riscaldamento globale. Tantomeno con le tecnologie più avanzate del risparmio energetico o le certificazioni più specifiche. Noi siamo immersi dentro il problema e siamo parte del problema con la nostra attività di trasformazione. La prima e più urgente cosa da fare non è far credere illusoriamente che grazie all’architettura tutto può cambiare, ma portare la domanda, l’interrogazione sul senso della nostra civiltà ai massimi livelli e farla diventare essa stessa architettura e rappresentazione. Cambiare noi stessi e la nostra Architettura. Architettura come consapevolezza della sproporzione e allo stesso tempo architettura che ha l’ingenua baldanza di sfidare gli Iperoggetti. Il passaggio che stiamo facendo è di dirigere le nostre forze oltre il perimetro del già conosciuto. Molti non hanno retto alla tensione e se ne sono andati. Altri verranno per giocare la partita.
Ecco alcuni casi di studio, che sono un pezzo di viaggio dentro la nostra storia, dentro le nostre sfide. Alcuni costruiti, alcuni lo saranno presto… è la nostra autobiografia che guarda più al futuro, che al passato.
Ogni capitolo è un tema per i nostri Lavori in Corso, non è una celebrazione, è già la festa.
CENTRO CITTA’ / IPERLUOGO

Questo è accaduto (e sta ancora accadendo) con il progetto del Centro Città di San Donato Milanese: qui entra in gioco il concetto di Iperluogo (da Michel Lussault). Cioè si tratta di un luogo il cui significato va oltre la semplice dimensione (enorme). Si tratta di 80.000 mq di spazio non costruito, diciamo così, ma non è abbastanza. Si tratta di un mega-vuoto urbano al centro della città di San Donato Milanese. Allora sarebbe facile dire: lasciamo il verde così com’è, non tocchiamo un filo d’erba e stop. Ma questo sarebbe sottovalutare la potenzialità di un Iperluogo che sta in mezzo a quello che è (stata) la capitale dell’Energia e del suo Progetto Urbano. Ovvero la materializzazione della speranza progettuale di Mattei che si è innestata nel borgo cascinale alle porte di Milano negli anni ’50. Allora per vari motivi il Centro è rimasto senza Progetto negli anni e oggi possiamo pensare a questo spazio come occasione di “scrittura nel vuoto”. Tracciare dei segni, proporre un modo di usare il Centro come luogo di relazioni simboliche, sapere padroneggiare le tracce discrete degli usi spontanei fatti dei piccoli cammini delle persone e degli animali. Non è un cammino facile, anche perché le relazioni vanno verificate e rilevate con attenzione, con la storia di San Donato che è storia di un rapporto col verde tutto particolare, come pausa e risorsa. La città giardino come speranza realizzata.
Ma oggi il verde si carica di altre valenze, di nuove interrogazioni, di nuove inquietudini. Oggi diciamo che questo spazio è innanzitutto un gigantesco affresco posato a terra e un “progetto di suolo”, quasi una “flatlandia”, un inno alla bidimensionalità. Ma come far capire questa densità tematica? Questa è architettura e non è un gioco fatto una volta per tutte, ma ogni volta bisogna capire le nuove regole. Stiamo disegnando il futuro del Centro di una città che non l’ha mai avuto, è un gioco al massacro, perché su questo spazio ci sono aspettative enormi e qui si capirà se l’architettura ha la forza di cambiare la realtà oppure no. Ma noi ci crediamo.
LAGHETTO / GESTO PROFETICO

Ma non è la prima volta che ci piace cambiare le regole del gioco. Ogni progetto ha un genitore nascosto. Già ci era capitato con il Laghetto di via Europa, sempre a San Donato. Qui il tema era la costruzione di 4 torri residenziali destinate ad un pubblico con alte aspettative riguardo la qualità dell’abitare. Poteva finire così, con un buon successo commerciale, ma siamo andati oltre (per complicarci la vita). Abbiamo voluto portare alla fruizione pubblica il recupero di un cava, per creare un lago artificiale di 50.000 metri quadri dentro il corpo vivo della città. Un gesto folle e smisurato se vogliamo, ma in anticipo sui tempi, perché ha portato il tema della natura da vivere (non solo da contemplare come feticcio) alla ribalta, senza esitazione, come dire: non può esistere progetto senza questa consapevolezza di essere natura e cultura insieme. Ma allora era un gesto dirompente di fronte alla speculazione del territorio, oggi è un dovere! I semi erano già gettati, oggi la drammaticità del momento attuale rende ancora più profetico quel momento di qualche anno fa….
LA CITTA’ GALLEGGIANTE

Did. 4 Il concept” La città galleggiante” – un grido di allarme che pochi ancora vogliono ascoltare.
Nasce da una provocazione. Una città toscana sul mare. La consapevolezza di una Amministrazione pubblica che vede chiaramente dai vari report scientifici che molte città sul mare saranno allagate nei prossimi 50 anni. E allora parte una visione, un racconto per il nostro prototipo di città galleggiante, niente di utopico, ma un sano realismo doveroso per un grido di allarme che pochi ancora vogliono ascoltare. Il rapporto dell’architettura navigante non è finito, la barca non si ferma. E la nave va.
L’ABITARE AMICHEVOLE / SOCIAL DISTRICT

Un altro grido che vogliamo ascoltare, per un progetto che è partito in tempi non sospetti. Un luogo di socialità. Dove questa parola non è detta in modo ideologico, ma parte dalla constatazione di un cambio radicale nella vita del nostro Paese. Anche qui un iperoggetto contro cui non possiamo opporci, ma che possiamo affrontare con spavalderia e coraggio. La de-natalità è ormai un fatto acquisito, la famiglia media italiana è di 2,28 persone. Quindi non ci sarà abbastanza cura per gli anziani, perché 1 giovane di oggi dovrà occuparsi almeno di 6 anziani…che fare? Siamo ben lungi da avere soluzioni in tasca semplicistiche, e non vogliamo esser catastrofisti, ma positivi, allora noi proponiamo un Social District come matrice di un abitare amichevole, dove possano vivere insieme anziani autosufficienti, con giovani famiglie. Quindi non una RSA, questo non è un luogo di cura (o di segregazione), ma un luogo di condivisione, dove mettere a tema l’aiuto reciproco e fare in modo che le giovani famiglie possano adottare un nonno e così i nonni possano coltivare gli orti, curare i bambini, aiutare le famiglie ed essere aiutati nella solitudine della terza età. È La Cura di Battiato. Questo non risolve la de-natalità ma, pone le condizioni per la costruzione di un luogo più umano di affronto del tema. Qualcuno vuole ascoltare nei luoghi del potere?
RIVISITAZIONE DI SPAZI UFFICI DI VIA QUADRIO A MILANO


Did. 7 Progetti in Via Quadrio a Milano: I luoghi del fare insieme
Cambiare la vita di chi lavora. Il vero problema è il fenomeno delle “dimissioni di massa” che colpisce le nostre città e soprattutto il nostro modello di lavoro. Sintomo di un virus che va oltre la pandemia, o meglio un nervo scoperto che la pandemia ha tirato fuori. Non si trova più il senso del lavoro, come momento di chiusura nella propria postazione mummificata. Oggi la trasformazione è verso i luoghi del fare insieme, per cui l’open space non può più essere uno spazio indistinto, non qualificato, occorre creare delle geografie di identità. Non esistono modelli scritti già una volta per tutte, non basta cambiare il tipo di scrivania o il tipo di poltroncina. Non è un problema di arredo o di layout. Il cubicolo genera disagio psicologico e un mondo arido dove ogni posto è equivalente, vince la logica del “chi primo arriva meglio alloggia”. Se poi te ne resti a casa tua è ancora meglio, segregato e distante davanti allo schermo del tuo computer. Ogni situazione lavorativa ha la sua identità e il suo grado di flessibilità. Nel caso di via Quadrio la nostra riflessione è stata di creare maggiore interazione tra dentro e fuori, ufficio e città, attraverso il cortile come spazio di incontro e piazza aperta per generare eventi. Così quella che era la tipica reception dove si esercita il controllo degli accessi diventa uno spazio comune dove si offrono opportunità. I luoghi del lavoro diventano luoghi della mescolanza, spazi dell’incontro e della sosta. (Questo era già stato sperimentato in nuce a Pozzuoli con i nuovi uffici Eni, dove abbiamo recuperato il capolavoro razionalista di Cosenza. Ri-abitare il patrimonio del Moderno attraverso un nuovo comfort, con uno sguardo soprattutto alla luce, per ridare contemporaneità e freschezza alla storia dell’architettura. )
LA CITTA’ DELLO SPORT/ LO SPORT IN CITTA’

Un altro Iperluogo /Iperoggetto, ovvero come si può progettare la nuova porta di Milano con una città tematizzata sullo sport, la salute, il benessere, lo studio del corpo e il divertimento. Questo è Sport Life City, ovvero controllare 250.000 mq di un disegno incompiuto di Kenzo Tange e portarlo a rivivere oggi, nel post-terziario, nel post-commerciale, dove bisogna ridare un senso all’incontro delle persone. Fa tremare i polsi, perché la dimensione è enorme e si mette in gioco la capacità di fondare una nuova città, a partire dalle relazioni, il rapporto da ritrovare col parco agricolo Sud Milano, le infrastrutture viarie, la tangenziale, il Passante, la Metro 3, la via Emilia. Non basta un bel disegno, occorre una riflessione sulla complessità. Qui c’è la connessione a tutto quello che chiamiamo Milano e città policentrica ed è qui che il sogno di incardina, per affermare che è possibile spiccare il salto.
I PORTI E LE MARINE

Accadono incontri, se uno studio è un crocevia di sguardi e di storie. Così siamo sempre cresciuti nel “brodo primordiale” del professionismo lombardo, che ha trovato nella Metanopoli di Mattei il suo imprinting. Per noi la passeggiata cittadina è stato l’incontro quotidiano con Gabetti e Isola, Ratti e Bacigalupo, Baciocchi, Helg/Albini, Gardella, Nizzoli Associati … E da questi ultimi, che hanno creato il capolavoro del primo palazzo uffici Eni, proviene Paolo Viola, ingegnere atipico e critico musicale, che si è unito a noi in questi ultimi tempi. Il suo compito e la sua vocazione: i Marina, i porti, i waterfront, il progetto del mare, forte di un’esperienza tecnico-ingegneristica vastissima. Con lui si è ricreato un network di professionisti per la portualità turistica. La scommessa: dimostrare che lo sviluppo delle nostre città può trovare un nuovo impulso dal turismo nautico. Ci piace pensare che un filo rosso ci unisce a questa bella storia di architettura lombarda che ci porta al mare.

Did.10 L’albergo sulla montagna /Il gesto assoluto dell’eremita
Wip sa anche trovare spazio e tempo per coltivare la ricerca pura: sulla tipologia dell’albergo in questo caso, ma inteso come luogo di meditazione e di ascolto del Sé. L’albergo in realtà è la matrice di un rifugio, un artificio per esplorare la montagna in solitaria. Uno spazio ardito, dove ritrovare le radici esistenziali del proprio fare. Qui si può sperimentare il suono della propria anima e cercare di scavare nel mistero della creatività. Il silenzio è l’alimento del segno. Da una parte non possiamo fare a meno di immergerci nel tumulto della vita urbana, ma non possiamo fare a meno dell’incanto e della scoperta del senso profondo delle cose.

Did.11 L’ Eco Hotel : ritrovare le radici esistenziali del proprio fare
Su questa splendida, irrisolta, ma feconda dualità ci piace incontrare ogni esploratore dell’architettura, quindi siete tutti invitati al viaggio.
La rivista reFRAME è scaricabile dal sito: reframedigital.it